CHE COSA È IL PALMENTO

Il palmento è il luogo in cui avveniva la pigiatura dell’uva per produrre il mosto che veniva riposto in grandi vasche. Utilizzati in scala industriale tra l’età ellenistica e tutta quella romano imperiale, durante quasi un millennio.

LE LOCALITÀ DEI PALMENTI ANTICHI

In Italia numerosi segni di palmenti ci rimangono nel Sud, in particolare nel Bruzio (Calabria) famosa in quell’epoca per la produzione del vino; sono rimasti quei palmenti che, seguendo una immemorabile tradizione, erano scavati nella roccia con due, e a volte più vasche collegate da canalizzazione anch’essa in pietra.

Alcune località come Ferruzzano (RC) offrono un numero impressionante di questi palmenti, usati ininterrottamente sino a qualche secolo fa; molti recano impresse delle croci, sia di tipo bizantino, sia di tipo latino e ci permettono così di misurare almeno in parte il lungo periodo del loro uso.

Altra testimonianza di palmenti è Pietragalla (PZ) dove se ne contano più di 100; qui alcuni abitanti del paese continuano tuttora ad utilizzare i palmenti come impianto per la produzione del vino.

Anche ad Ischia (NA) all’interno del Castello Aragonese si possono vedere gli antichi palmenti utilizzati per la pigiatura delle uve.

Ma anche a San Gregorio Magno, in Provincia di Salerno, è rimasto qualche esemplare di palmento, completamente scavato nella pietra.

Nelle circa 600 cantine, ubicate nella zona sud della cittadina, appropriatamente denominata Via Bacco, originariamente ce n’era almeno uno, poi, un po’ per fare spazio, un po’ l’azione delle nuove tecnologie di vendemmia hanno fatto sì che la maggior parte sia stata distrutta.

In epoca successiva, con il termine palmento si sono indicate le macine dei mulini ad acqua, che schiacciavano le olive per produrre olio, o frantumavano il grano per ricavarne la farina.

COME FUNZIONAVA IL PALMENTO

L’ambiente, solitamente alloggiato al piano terra della massaria, conteneva la vasca principale elevata rispetto al pavimento (parmentugebbia) e quella di raccolta, sottostante e seminterrata per la raccolta (puzzu, tina, zubbiu).

I pistatura, a piedi scalzi, spremevano l’uva con passo ritmato, mentre all’occorrenza si aggiungevano nella vasca nuovi grappoli.

Il succo che fuoriusciva (u mustu) travasava nella tina attraverso il cannuolu, a cui spesso veniva appeso un piccolo cesto che servisse da filtro.

L’operazione suggeriva quasi il rituale di sacrificio dell’uva che grondava di succo rosso come sangue.

Sulle Madonie era quasi d’obbligo pronunciare la formula propiziatrice: Mori racina, crisci mustu nni la tina!

Pigiato tutto il raccolto, si procedeva alla tramutata (tramutatina), ovvero al travaso del mosto raccolto che veniva riversato nella vasca superiore dov’erano i graspi, per iniziare la fermentazione.
Ciò avveniva per mezzo della lancedda, presa come unità di misura (circa l. 8,5) e dunque utile per una anticipata approssimativa stima.

La conta avveniva declamando i nomi di santi, in una progressione che faceva riferimento alle date calendariali delle festività, cui seguivano risposte recitate e anch’esse codificate.

La giornata dei vignaioli finiva in genere con una piccola festa agreste, attraverso il consumo del pranzo, bevute di vino dai caratteristici fiaschi, brindisi, giochi, scherzi di ogni genere.

Il mosto si lasciava riposare per 24 o 36 ore per poi essere nuovamente scolato nella tina; si riempivano gli otri per il trasporto sui muli e si procedeva alla spremitura col torchio delle vinacce residue.

LA CHIUSURA DEI PALMENTI

Ci sono leggi che un contadino nella sua semplicità non potrebbe mai accettare, come quelle che prevedono di distruggere un prodotto agricolo per una presunta tutela dell’ambiente.

Tale è la legge che ha fatto chiudere i palmenti, dopo migliaia di anni che il vino si faceva con questo sistema.

Dimenticando però che in Sicilia è stato utilizzato fin quasi ai giorni nostri, ovvero fino a quando non è intervenuta l’accecante follia salutista dei tempi moderni, tradotta in un divieto di legge tranchant che testimonia l’insensibilità dei legislatori, perché il palmento è l’anima dell’enologia.

L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE COMUNITARIA

L’applicazione delle leggi comunitarie in materia d’igiene e produzione alimentare ha apportato una vera e propria rivoluzione. Tali leggi hanno ribadito quello che da qualche tempo era già sancito dalle leggi nazionali, vale a dire che le vecchie cantine, i palmenti, non sono, così come adesso strutturate e rifinite, adeguate dal punto di vista igienico sanitario e della sicurezza, alla trasformazione di prodotti vitivinicoli.

Questo stato di cose ha costretto i produttori, che vinificano nei vecchi palmenti, a prendere una drastica decisione per non incorrere in pesanti sanzioni: o adeguarsi alle normative oppure chiudere la cantina.

Adeguare il palmento alle normative vigenti è possibile solo con notevoli trasformazioni dei locali adibiti alla produzione e l’acquisto di nuovi macchinari. Questo comporta, da parte del produttore, l’investimento di cospicui capitali. Di conseguenza si sta verificando un ulteriore pesante abbandono di quei palmenti che sino ad oggi, resistendo nel tempo, erano stati in qualche modo utilizzati per la vinificazione. La chiusura dei palmenti, ha comportato purtroppo l’abbandono dei relativi vigneti.

L’ORIGINE DEL TERMINE PALMENTO

Il palmento, ha una etimologia incerta, forse dal latino pavimentum ‘pavimento, selciato’. Forse nell’accezione che più ci interessa, è la macina del mulino ad acqua.

Sull’origine del termine i linguisti sono incerti: forse richiama il pavimento, su cui la macina gira, e anche quando il palmento descrive la vasca per la pigiatura e la fermentazione dell’uva torna il riferimento al solido pavimento della vasca. Resta un termine fascinoso, retaggio di tecniche di trasformazione alimentare ormai andate, che pure rimangono segnate nel nostro patrimonio linguistico.

LE VARIE ESPRESSIONI CON LA VOCE “PALMENTO”

La macina da mulino era una grande vasca usata per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto.

Macinare a due palmenti voleva dire, quindi, macinare con due mole, in maniera certo più rapida ed efficace che a un solo palmento. Tradizionalmente, in senso figurato, questa aggiunta di palmenti aveva di volta in volta un significato diverso.

L’espressione “mangiare a quattro palmenti” deriva dal fatto che tali mulini utilizzavano generalmente solo uno o due palmenti.

Si sa che cosa vuol dire “mangiare a quattro palmenti” (che statisticamente esaurisce l’uso del termine ‘palmento’) ma non si sa da dove venga questa espressione.

Ad esempio si poteva intendere che chi macinava a due palmenti stava facendo un doppiogioco, il marito che macinava a tre palmenti aveva un’amante (anche perché portare il grano a palmento, ovviamente, aveva pure un significato sessuale).

Ma soprattutto, vista l’affinità ideale fra il macinare e il masticare, macinare a due, a tre o perfino a quattro palmenti, come diciamo oggi, diventava un mangiare con crescente foga. E questa è la nostra eredità, per cui butta mezzo chilo di pasta, perché a pranzo viene un amico che mangia a quattro palmenti.

PERCHÈ SI DICE MANGIARE A QUATTRO PALMENTI

È un po’ imbarazzante vedere come la storia vivacissima di una parola, e il suo vivacissimo uso, si siano cristallizzati in un’espressione del genere – bella e colorita, ma ormai infeconda.

Mangiare a quattro palmenti significa:

Il palmento è ognuna della due macine del mulino ad acqua; il fatto di usarne addirittura il doppio sottolinea il concetto di voracità.

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